Di solito, di domenica, il mio dio di dentro va in vacanza. Ed io mi sento persa senza di lui. Però oggi mi é andata bene perché dovevo scrivere e lui mi ha fatto sentire la sua presenza, il mio dio di dentro.
Il mio dio di dentro é molto affamato, si deve nutrire di cose nuove e interessanti per stare in salute. In mancanza di queste sopravvive con le piccole sfide, con il lavoro che scuote, con il movimento. Se anche questo viene a mancare, lui muore. Poi rinasce, ovvio. O almeno é ovvio per me. Però, quando muore, portarselo dietro é stremante. Voglio dire, é stremante attendere che rinasca.
Stavo pensando che dev'essere un dio di dentro talmente esigente da sforare nel capriccio... eppure non ci litigo mai. A dire il vero, gli voglio proprio bene.
Due anni fa ho iniziato a scrivere una sceneggiatura per un lungometraggio, dal titolo "Non siamo stati bravi".
Stavo pensando, rileggendola, che questo micro pezzo fosse particolarmente autobiografico:
“É così che vanno spesso le cose.
Le persone si aprono con me, mi raccontano di sé,
si sfogano. Si spogliano delle parole che non possono pronunciare se non in
presenza di una sconosciuta, si sentono libere di darmi consigli dopo aver
saputo di me le informazioni più superficiali. E credono che siano sufficienti
due parole sul mio privato per conoscermi a fondo ma la verità, é che a parte
questo, io non parlo mai. Ascolto. Faccio tante domande. E nel loro ricordo
sfuocato, il mio domandare si trasforma in un esporre, in un raccontare.
In realtà non mi ascoltano facilmente, al mio
parlare non viene dato molto spazio. Il mio ruolo reale e’ quello di un
secchio nel quale riversare i lamenti più disperati, le confidenze più
maliziose e i pettegolezzi più crudeli.
A volte però mi confidano anche i loro sogni. Indirettamente
mi proteggono, si prendono cura di me. Mi danno calore. Ed io, travolta da un’abitudinaria tristezza, prima o poi li abbandono”.
Così io mi sentivo.
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